Il virus ha falciato la generazione che vide la guerra: i ragazzi della speranza, gli uomini della ricostruzione Non ci sarà fase 2 se prima non li piangeremo insieme
· Corriere della Sera
· 15 Apr 2020
· di Antonio Scurati
Erano nati con la Guerra mondiale e sono morti a causa della pandemia globale. Erano sopravvissuti alle bombe, alla fame, alle deportazioni e sono stati finiti da un’infezione polmonare. Si erano affacciati alla vita sotto l’oppressione di Hitler e di Mussolini e l' hanno lasciata sotto il segno di un acronimo impersonale, il Sars-cov-2. Furono battezzati con il fuoco di un mondo in fiamme e moriranno senza l’estrema unzione in una desolata, asettica corsia d’ospedale.
Non esistono destini migliori o peggiori di altri, esistono solo destini. Quello della generazione falciata in queste settimane dal virus merita, esige il nostro compianto, il nostro tributo di dolore collettivo. I parenti delle vittime non devono esser lasciati soli a piangere i loro morti, perché essi sono i nostri morti. Essi sono i compagni di una vita, essi sono i padri della nostra gioventù, essi sono i nonni dell’infanzia dei nostri figli. Tra le decine di migliaia, i più avevano 80 anni. Furono i bimbi del ’40, figli dell’apocalisse, nati nell’ora «segnata dal destino», furono i ragazzi della speranza, gli uomini della ricostruzione, i vecchi della delusione.
«Se ne vanno — si legge su di un appello che circola in rete — se ne vanno mesti, silenziosi, come magari è stata umile e silenziosa la loro vita, fatta di lavoro, di sacrifici. Se ne va una generazione, quella che ha visto la guerra, ne ha sentito l’odore e le privazioni... Se ne vanno mani indurite dai calli, visi segnati da rughe profonde, mani che hanno spostato macerie, impastato cemento, piegato il ferro, in canottiera e cappello di carta di giornale. Se ne vanno quelli della Lambretta, della Fiat 500, dei primi frigoriferi, della televisione in bianco e nero. Ci lasciano avvolti in un lenzuolo, come Cristo nel sudario, quelli del boom economico che con il sudore hanno ricostruito questa nostra nazione, regalandoci quel benessere di cui abbiamo impunemente approfittato. Se ne va l’esperienza, la comprensione, la pazienza, la resilienza, il rispetto, pregi oramai dimenticati».
Il destino molto ha dato agli uomini e alle donne di questa formidabile e sciagurata generazione, e molto ha tolto. Appartennero alla leva più ariosa del secolo, scalarono l’esistenza con il fiato immenso di un ciclista in fuga ma hanno esalato il loro ultimo respiro spolmonati. Nacquero spesso in stanze malsane, mal areate, poco illuminate, sotterranei, case di ringhiera, poveri cascinali, ma sempre affollate, vocianti, dense di vita e, poi, però, sono morti da soli, protetti, isolati e, al tempo stesso, abbandonati da un necessario e impietoso protocollo sanitario.
È terribile doversene andare senza un volto amato da poter contemplare. Non si può immaginare morte peggiore. Eppure, questo è stato il loro destino in una primavera senza gioia. Ci sono parole per piangere i defunti e ci sono parole per consolare i viventi. Le seconde non sono possibili se non sono state recitate le prime.
Per questo motivo, su coloro che se ne vanno dobbiamo invocare con forza, con tutta la pietà di cui siamo capaci, il sinistro splendore di questa falsa primavera. E su di noi, che restiamo, la loro benedizione.
Nessuna «fase 2» giungerà davvero se prima non avremo scavato la terra, deposto le bare, protetto il tumulo con fiori da bordura. Ora è il tempo di piangere i nostri morti. Di promettere a noi stessi che i bambini del ’40 non saranno dimenticati.
Che la terra vi sia lieve.
OTTIMA OSSERVAZIONE! Potrei lavorarci io con Vittoria. Che ne dici Vittoria? (elide)
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