L'ULTIMO GIORNO DI UN SOVRANO
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Non mi è che rimasta la preghiera e così, rinchiuso in me stesso, mi affido allo stesso Dio che fra tante persone aveva posto la corona proprio sulla mia testa, che ora fissa il vuoto mentre tiro lunghi sospiri.
Da piccolo mi ero appassionato alle biografie di grandi sovrani e di continuo rileggevo quella di Carlo I Stuart, decapitato il 30 gennaio 1649 dopo aver lottato per preservare il potere assolutistico. Ora, il 21 gennaio 1793, come lui, aspetto la mia esecuzione e percepisco, oltre al gelo che mi appesantisce i movimenti, la stessa consapevolezza dell’imminente fine.
Non ho mai desiderato che la corona fosse posta sulla mia testa, ma fin dall’inizio ho capito che le voci della nobiltà, riguardo il mio carattere considerato troppo debole, sarebbero state sicuramente più taglienti della lama che incontrerò tra poco.
Versailles garantiva lussi e privilegi ma mi sarebbe bastato un confronto con una persona che volesse comprendermi; per questo la migliore compagnia che potessi avere era la solitudine, dove potevo capire ciò che davvero pensavo di me stesso senza concentrarmi sui pareri esterni.
E’ in tutti questi pensieri di rabbia che la mente mi porta a riflettere anche su Maximilien de Robespierre. Ricordo il suo giovane viso quando nel giugno del 1775 venne scelto per pronunciare un elogio in versi latini da dedicarmi. Mi annoiavano quelle parole e non gli avevo prestato ascolto ma se avessi potuto tornare indietro avrei fissato gli occhi innocenti di una persona non ancora accecata dalla demagogia, mentre ora mi ritrovo chiuso in questa cella soprattutto per colpa sua e della sua dittatura. Parigi aveva deciso di rifondarsi su principi di uguaglianza, libertà ed umanità, ma mi chiedo se davvero sia umano condannare talmente tante persone senza ragione, e nemmeno permettere ad un padre di abbracciare per l’ultima volta i suoi figli. Ma ora desidero solo salire sul patibolo e passare dal mondo corruttibile a quello dove regna la tanta ricercata pace, dove l’unico a giudicarmi sarà Dio e dove potrò pregare per la sorte dei miei figli, quella di mia moglie e della Francia.
«Cittadino Luigi Capeto, siete stato condannato a morte con l’accusa di alto tradimento verso la Francia, oggi 21 gennaio 1793 verrà eseguita la vostra condanna. Dovete seguirmi, vi condurrò al patibolo»
Annuisco lentamente ormai rassegnato alla realtà.
Il libro dei Salmi che tengo tra le mani mi porta ad immaginare ciò che sarebbe successo dopo. Tra poco la Francia, inebriata dal potere, avrebbe intinto le mani nel mio sangue, avrebbe fatto di me una carneficina, avrebbe cantato lodando la tanta agognata giustizia e mostrando che il volere dell’uomo, a differenza di quello divino, a volte non conosce la pietà.
Il tragitto è lento ed angosciante e paradossalmente spero di arrivare alla fine il più in fretta possibile.
Gli ultimi respiri, quando arrivo al patibolo, sono forzati e pesanti e i miei occhi impassibili, come se non avessi più nemmeno la speranza di poter piangere l’ingiustizia della mia condanna. La Francia ha lottato per la libertà ma per riuscire nel suo intento si sta facendo guidare dalla scia di sangue dei giustiziati.
Salgo gli scalini ma quelle che erano le mie aspettative sono diverse dalla realtà. Attorno a me la folla osserva mantenendo un silenzio religioso, ma credo conservi il fiato per dopo.
«Perdono coloro che hanno causato la mia morte e spero che il mio sangue non debba mai ricadere sulla Francia»
La voce mi trema e risvegliandomi da una forte scia di vento che mi punge il volto mi rivolgo con uno sguardo alla Francia che mi guarda con disprezzo, come alla fine hanno sempre fatto tutti nella mia vita.
Prego l’assistente del boia di donare quello che rimarrà dei miei capelli a mio figlio e mentre semplicemente lo guardo il cuore gli sussurra e lo prega di non tramandargli la figura che tutti hanno sempre delineato di suo padre. Non dovrà raccontargli di un uomo forte che non si arrese e non pianse mai, ma di un uomo che ammise di aver pianto.
Così la mia testa si appoggia alla ghigliottina, mentre osservo per l’ultima volta Parigi, con la stessa lentezza con cui mi hanno fatto aspettare la morte e con la stessa lentezza con cui fin da bambino hanno capito la mia fragilità.
Carlo I Stuart, prima della sua esecuzione, indossava due camicie di cotone per evitare che i suoi sudditi pensassero che tremasse a causa della paura. Non sono riuscito a mascherare in tutte le occasioni la mia paura ma ho lottato, seppur con le mie difficoltà, per riuscire a tenere pulita la camicia della Francia.
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Francesca Malvaso