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quale muro?

La paura. La paura dei diversi. La paura delle culture diverse. La paura di essere inferiore in confronto ad esse. È la paura l’ostacolo, la causa per cui non si vuole andare oltre, non si vuole vedere oltre. In quest’immagine riconosco il terrore di un bambino sorretto dalle mani sudate, spaventate, di un uomo. Identifico inoltre la sensazione di salvezza che queste persone nutrono, la bellezza di essere salvi da una guerra, da una povertà, da un problema ambientale o religioso. Magari hanno scavalcato questo muro per cercare una stabilità economica, di salute. Non si intuisce il motivo per il quale stiano scappando, al contrario, però, si riconosce la sofferenza che essi stanno provando e il coraggio che devono spendere per oltrepassare la barriera.

Sì, perché ci vuole coraggio per riuscire a superare un ostacolo così grande, così imponente. Emblematico è il nome attribuito al muro tra Messico e Stati Uniti D’America: “Il muro della Vergogna”. La vergogna di essere deboli, inferiori, impotenti, invisibili. Ecco, il “muro” prima di essere fisico, di metallo, di filo spinato, di mattoni, di pannelli, è un simbolo di divisione. È la fine di una civiltà, magari in pericolo, e l’inizio di una nuova cultura. Tra questi due fattori comanda il più forte, il più sviluppato ed è sempre lui che decide di innalzare queste barriere: vuole impedire che le popolazioni dello Stato adiacente migrino verso le sue tradizioni, le sue idee, i suoi pregiudizi.

Forse la fotografia imprime proprio una famiglia messicana che cerca di salvarsi verso un nuovo Mondo, gli Stati Uniti d’America. Cerca di fuggire da una civiltà senza diritti per scappare verso una società globalizzata.

Il fenomeno della globalizzazione, infatti, non colpisce tutti i Paesi: solo le Nazioni più sviluppate hanno la possibilità di premere un tasto per ordinare un prodotto dall’altra parte del Mondo e farselo consegnare direttamente a casa. È come se il Pianeta fosse diviso in due: il Nord consumatore e il Sud produttore. Inoltre, per colpa della richiesta continua di merce, aumenta il consumismo, l’abuso delle risorse terrestri e le popolazioni più povere e quindi bisognose di occupazione, spesso, sono sfruttate e maltrattate da ricchi industriali. Il fenomeno della delocalizzazione, cioè il trasferimento delle società produttive in aree con minori costi di manodopera, sembra portare disoccupazione al Nord e troppo lavoro al Sud, in contrasto con gli obiettivi dell’Agenda 2030 che oltre a ridurre l’ineguaglianza, la produzione e il consumo non sostenibili, la disoccupazione ecc. hanno anche lo scopo di avvicinare il divario tra povertà estrema e ricchezza.

Se osserviamo la parola globalizzazione notiamo che la radice deriva da globale ossia da globo: esso è il pianeta, l’intero pianeta, quindi perché questo fenomeno così grande e potente riguarda solo una minima parte di esso? Ci sono dei movimenti di protesta no global che manifestano proprio questo valore, accettano la globalizzazione per i suoi vantaggi ma chiedono che attraverso essa non si penalizzino i Paesi del Terzo Mondo con lo sfruttamento e la cancellazione dei loro diritti per una maggiore produzione. Penso a Enaiat e Iqbal, due personaggi che ho incontrato nei libri “Nel mare ci sono i coccodrilli” e “Storia di Iqbal”: entrambi hanno sofferto una condizione di schiavitù allarmante che ha impedito loro di recarsi a scuola, di ricevere un’istruzione adeguata, di poter essere LIBERI. Devo sottolineare, però, il fatto che il primo riesce a laurearsi e a condurre una vita “normale” aiutando le persone che come lui rischiano la propria sopravvivenza per fuggire, mentre Iqbal viene colpito da alcuni proiettili di pistola nella Pasqua del 1995 dalla mafia dei tappeti; il voler essere liberi implica una perdita che, nelle situazioni peggiori, è la vita. 

Nel periodo complesso che stiamo vivendo, la scuola si è adattata alle condizioni imposte per la salute pubblica e ha permesso a ogni studente, pur sempre avendo delle difficoltà nel far presenziare l’intera Nazione, di partecipare virtualmente alle lezioni. Pensiamo per esempio all’Africa o ad alcune regioni del subcontinente indiano e della Cina che sono escluse dall’accesso a Internet. Questo problema, denominato digital divide, impedisce loro non solo l’apprendimento scolastico ma anche la crescita e lo sviluppo del Paese. Quando noi con un click possiamo modificare qualunque cosa online, quelle popolazioni devono ancora apprendere cosa sia un “click”. La globalizzazione, quindi, rende il Mondo sviluppato più unito, più commerciale, con gli stessi modelli di vita ma penalizza sia economicamente sia umanamente il Terzo Mondo. È per questo motivo che si costruiscono delle barriere fisiche tra ricchi e poveri come tra USA e Messico, tra Spagna e Marocco (Ceuta e Melilla), tra Ungheria e Serbia, tra Grecia e Turchia, tra Arabia Saudita e Iraq...

Questi muri rappresentano una divisione, un ostacolo, un confine ma anche un impedimento nella visione della realtà come nella poesia “L’infinito” di Giacomo Leopardi. In essa si narra l’immaginazione dello scrittore verso un orizzonte nascosto, coperto da una siepe che ne vieta la visuale, una vera e propria linea d’ombra.

Ci sono muri reali che impediscono la migrazione, come si nota nell’immagine, ma ci sono anche barriere mentali. Esiste il muro dell’indifferenza che la senatrice a vita Liliana Segre ha voluto imprimere all’entrata del Binario 21 come simbolo di offesa e invisibilità; c’è da abbattere il muro del silenzio per dare voce a chi non può farlo attraverso la denuncia, la solidarietà. Nel libro di Paolo Borsellino, dal titolo “Oltre il muro dell’omertà”, si comprende infatti come la parola sia l’arma più potente per sconfiggere l’omertà.

Una muraglia può essere anche costituita da una differenza sociale, come tra bianchi e neri. Nel film “Diritto di contare” si percepisce la distanza che i primi vogliono mantenere dagli altri e i pregiudizi contro le ragazze di colore che impediscono loro di recarsi nello stesso bagno, di poter bere dalla fontanella, di avere un ambiente di lavoro spazioso e pulito, di svolgere una vita lavorativa stabile e regolare…   Nello spettacolo “In-Contro al lupo”, le barriere sociali vengono rappresentate sovrapponendo molteplici scatole ognuna delle quali simboleggia disprezzo come odio, razzismo, violenza…tanti, troppi, sono ancora gli ostacoli che ci impediscono di demolire queste costruzioni.

Secondo me il muro è anche una mancanza di libertà, di scelta, di autonomia. Potremmo definire, quindi, le sbarre della prigione come un ostacolo? Sì, certo. Esse impediscono la volontà del carcerato, lo umiliano, lo vergognano. Lo rendono inutile d’innanzi a una parete insuperabile che abolisce ogni volontà.

Anche la carità è una barriera a causa della quale si ignora, si vuole ignorare, l’aiuto che si potrebbe offrire a qualcuno: magari un giorno sarà il contrario e l’avaro che si è tenuto il proprio patrimonio senza essere solidale con le persone in difficoltà si troverà nelle loro stesse condizioni. Chi l’aiuterà?

Una divisione, per qualcuno, potrebbe essere anche una scala. Una scala impossibile da percorrere da un ragazzo in carrozzella che vuole raggiungere, ad esempio, la palestra: questa è una barriera architettonica, un ostacolo che sembrerà banale per molti ma che per qualcuno in difficoltà è inaccessibile. E lo schermo di un dispositivo elettronico? Anch’esso è un muro. Un muro che non bisogna superare ma spegnere. Continuare a osservare lo screen di un telefono ci impedisce di vedere la società intorno a noi, l’evoluzione che essa continua a percorrere.

Esistono barriere reali, mentali, sociali, tecnologiche ma anche naturali come il mare: nello spettacolo Oranges Amères si narra proprio il passaggio della cultura che lo attraversa. Questo lo possiamo vedere come una conquista di valori ma anche come una perdita di patrimoni che ci si lascia alle spalle. Anche Enaiat, nella sua biografia, racconta le molteplici difficoltà che deve attraversare per raggiungere la riva opposta.

Nell’immagine rappresentata, infatti, non vedo soltanto il muro visibile di lamiera che deve essere superato; c’è anche la paura di essere visti, la vergogna di essere deboli, la difesa della sopravvivenza, la fragilità dei sentimenti. Soprattutto c’è la speranza. La speranza di un futuro migliore, la speranza di aprire nuove porte, la speranza di vedere un orizzonte libero e non buio.

Quando osserviamo un muro, che sia di filo spinato o di scatole, ci ritorna un messaggio negativo, di chiusura. Esistono delle forme d’arte, i murales, che, al contrario, esprimono una forma di bellezza su superfici scure, rovinate proprio come le pareti della città. Riflettono speranza, passione, creatività, amicizia… in un dipinto di fantasia. Rappresentano anche un simbolo di ricchezza per molti villaggi culturali.

Esistono, quindi, molte muraglie e barriere da abbattere sia nel grande mondo sia nella nostra piccola città che forse neanche vediamo ma ci sono ancora molteplici ponti da costruire per unire delle civiltà che si continuano a distanziare.

 

 

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#distruggeremuripercostruireponti

 

 

Martina Bettoni 

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